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Chi siete? Cosa fate nella vita? Come siete
inciampati in questo blog?
A.: Non lo so, ci hanno messo un sacco in testa e ci hanno
trascinato in questa stanza... chi c'è dietro la luce fortissima di quella
lampada? Perché la voce distorta?...
Ehm. Chi sono, sto ancora cercando di capirlo. Una che vuole
scrivere, senza dubbio. Una metallara con la spada, anche... Insomma, sono Nemi
Montoya versione scribacchina.
Cosa faccio nella vita: scrivo, leggo, traduco, correggo,
edito. E viaggio, vado al cinema, al pub, ai concerti, e mi godo la vita più
che posso cercando di zittire la mia parte ansiosa.
L.: Ci sono venuto su invito di una graziosa giovane scrittrice
che a vederla sembra puccia come un peluche ma poi se la leggi ti rendi conto
che ha la mente di un killer. E io accetto sempre gli inviti delle giovani
scrittrici pucce come peluche, anche quando sono più alte di me (cioè i due
terzi delle volte…)
Nella vita mi hanno chiamato traduttore, redattore, stregone,
guida turistica, Rafiki, Peter Pan, brutto disgraziato ed “Ehi tu con quei
capelli da ragazza!” Ho scritto anche dei libri, ma a differenza di Terry
Pratchett non sono mai stato accusato di letteratura :-p
Però, a voler essere del tutto sinceri, l’unica cosa che so
fare veramente bene nella vita è l’imitazione di Rumpelstiltskin.
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Se voi foste un dipinto, sareste…?
A.: Sai che questa è una domanda difficile? Non riesco a
trovare un quadro «classico» per risponderti. Ti metto un link a un'immagine
pescata su internet per caso, di cui ignoro l'origine: click. Dovrebbe rappresentare la Morrigan. Io mi ci ritrovo molto, o almeno ci provo.
I capelli lunghi ce li ho ^___^
L.: Probabilmente uno di
Caspar David Friedrich.
Forse il “Viandante sul mare di nebbia”
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Se i vostri romanzi fossero dipinti, sarebbero…?
A.: … E questa è ancora più difficile! Ero più preparata su
paragoni con la musica... Non mi viene in mente un quadro in particolare. Ma
ecco, posso dirti che, se fossero
fumetti, sarebbero strisce di Nemi, con qualche mostro in più.
L.: Più che dipinti,
illustrazioni di Daniel Dos Santos ( www.dandossantos.com
)
Oppure fumetti di Gary Frank!
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E voi, come “dipingete” i vostri romanzi?
Scrivete a penna o su tastiera? Con un orario fisso da rispettare, o quando
capita? Pianificando tutto o aspettando che la vostra musa si presenti alla
porta?
A.: Al 95% su tastiera; la penna e il notes mi servono solo
per prendere appunti o abbozzare scene quando devo fissare qualche idea mentre
sono fuori da casa. Preferisco scrivere di sera e di notte, ma non ho un orario
preciso, scrivo quando ho un momento libero per farlo, dato che non è il mio
unico lavoro. E sono costituzionalmente incapace di pianificare: butto giù
qualche scaletta parziale, ma soprattutto scrivo mettendomi alle calcagna dei
personaggi e vedendo che combinano loro. E no, non aspetto l'ispirazione. È lei
che deve trovarmi già al lavoro al computer.
L.: Se scrivessi a penna non
sarei capace di rileggermi da solo. Quando ero in università una mia amica che
insegnava catechismo usava i miei appunti per punire i suoi ragazzini quando
facevano casino: hai rotto le palle? Una pagina di Tarenzi da trascrivere! Non
sto scherzando. La mia calligrafia è stata usata come strumento di tortura
disciplinare.
Di solito non mi do orari nella giornata ma mi do scadenze
settimanali, a cui sono molto ligio: tot migliaia di battute alla settimana altrimenti
non si fa altro finché non si è raggiunta la quota. In genere pianifico le
storie in maniera un po’ diseguale, dettagliando molto alcune parti e molto
poco altre, ma una scaletta (mentale, quasi mai scritta) ce l’ho sempre. E vale
la vecchia celebre regola: la musa quando arriva deve trovarti seduto che
lavori.
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E i vostri personaggi? Che tipo sono? Sono
ispirati a persone reali?
A.: Singoli atteggiamenti, aneddoti o dettagli del carattere
magari appartengono a persone che conosco o che ho conosciuto, ma non ricalco
mai un personaggio tale e quale su qualcuno di reale. Per lo più sono loro che
arrivano, si presentano e iniziano a fare casino. Che tipi sono? Be', sono una
folla abbastanza eterogenea, in realtà. Ci sono i pazzi, i bravi ragazzi, i
leader, gli insicuri... Molti sono persone che non hanno ancora trovato se
stessi, altri sono persone che invece credevano di averlo già fatto e hanno
visto frantumarsi l'immagine di sé che avevano. Per lo più sono uomini, perché
mi trovo meglio – e mi diverto di più – con personaggi maschili, ma non è una
regola; nelle storie che ancora devono uscire la presenza femminile è
aumentata. In comune hanno il fatto che... li tratto tutti malissimo. Più che
temere il fan pazzo stile Misery non deve morire, temo che i personaggi
escano dai miei libri e mi vengano a cercare per regolare i conti. Armati di
spranghe e spade, sì.
L.: I miei personaggi sono
degli squilibrati. Non nel senso che devono sembrare esoticamente psicopatici –
o anche solo esotici – apposta per appagare il palato di quei lettori un po’
radical chic che cercando lo strano a ogni coso: intendo proprio privi di
equilibrio. La cosa che mi interessa di più è vederli precipitare in direzioni
che non conoscono, con movimenti che non sanno controllare. E scoprire cosa
succede a quel punto, cosa possono imparare a fare per riprendere il controllo
delle proprie vite. Mi ispiro spesso a persone che conosco e/o a personaggi
famosi per l’aspetto fisico, ma praticamente mai per il carattere: l’ho fatto
un po’ nel mio primo romanzo, molti anni fa, ma da allora non più.
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Secondo voi, perché i personaggi nell’urban
fantasy sono spesso dei disadattati (ragazzi che non hanno ancora trovato il
proprio posto nel mondo, o adulti che occupano un posto che non fa proprio per
loro)?
A.: Per quanto mi riguarda, i personaggi che ho descritto
finora sono semplicemente figli del mondo in cui vivono, che è anche il mio. E
quindi sperimentano sulla propria pelle la crisi, cercano di relazionarsi con
le persone, sono costretti a fare un lavoro che non gli piace per mantenersi e
così via. E nel caso in cui, all'inizio della storia, siano persone tranquille
e soddisfatte... ci penso io a devastargli la vita quando comincia il romanzo,
per vedere come reagiscono.
L.: Perché se non sei
integrato di solito hai un disintegratore (anche se magari non lo sai). Se non
sei una mattonella, sei un buco nel muro. Ed è dai buchi che può entrare quel
che c’è al di là del muro.
Stranezza attira stranezza. E tenete conto che anche
l’assoluta, perfetta normalità è una cosa parecchio strana.
Poi c’è anche una spiegazione che sa di psicologia da
marciapiede e dice che, siccome il fantasy è perlopiù diretto ai lettori
giovani e tutti gli adolescenti si sentono dei fuori posto, servono personaggi
disadattati perché loro ci si possano identificare meglio. Ma personalmente la
ritengo una spiegazione del colore del cemento e non intendo usarla nemmeno
come scendiletto.
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Quanto conta l’ambientazione in una storia urban
fantasy? (E quanto è divertente far esplodere edifici milanesi o far rovesciare
i banchi di una chiesa a un gruppo di angeli munito di spranghe?)
L.: L’ambientazione è
importantissima. Se la tua storia è urban fantasy e non fantasy tout court è
imprescindibile che il setting sia qualcosa che il lettore conosce (o crede di
conoscere, o può immaginare di conoscere senza eccessivo sforzo), perché il
senso di straniamento che deriva dal vedere i mostri e la magia irrompere nelle
strade delle nostre città reali – o delle nostre campagne, o dei nostri boschi,
beninteso – è parte dell’anima del fantastico metropolitano. Per questa ragione
sono fermamente convinto che gli autori italiani di urban fantasy possano e
debbano usare setting almeno in parte italiani. Poi è ovvio che nulla ci
costringe a limitarci a quello, ma penso che l’idea che volevo far passare sia
passata, no?
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Quanto conta il tipo di creature sovrannaturali
presenti? Anche in relazione alle moderne alterne di vampiri, angeli e zombie.
A.: Secondo me, il bello dell'urban fantasy è che non pone
limiti in questo senso. Ho scritto di angeli, ho scritto di vampiri, ho scritto
di spiriti usciti da leggende... Nell'urban fantasy c'è il soprannaturale
inaspettato, celato magari a una strada di distanza da casa, oltre la soglia di
un edificio davanti a cui si passa tutti i giorni. Vampiri, angeli, fate e così
via si portano dietro il peso degli archetipi, dei tanti significati che hanno
assunto col tempo, attraverso mitologia, folklore, letteratura, cinema
eccetera, un'eredità con la quale è possibile giocare e che è possibile
sfruttare; ma sono anche potenzialmente così flessibili e multiformi che è
sempre possibile dare loro un taglio nuovo, vederli da un'angolazione personale
e insolita.
L.: Uno dei problemi del
mercato fantasy odierno – un problema senz’altro internazionale, ma che in
Italia si vede in forma particolarmente esasperata – è proprio la tendenza a
pensare che le figure del fantastico siano intercambiabili. Puoi metterci
l’angelo o il licantropo o il vampiro, l’importante è che si innamori della
liceale sfigata di turno; se ha le ali da pipistrello o i peli lunghi una
spanna o una coda con le squame non ha nessuna importanza.
E invece ce l’ha. E non ditemi che devo sul serio spiegare perché.
Ogni creatura dell’immaginario ha una sua tipicità, una sua
tradizione, una sua mitologia. Che poi può essere rispettata, reinterpretata,
stravolta, ibridata o fatta a pezzi e ricucita Frankenstein-style: il gusto del
gioco sta proprio qui. Ma se viene semplicemente ignorata non ci si guadagna
nulla: ci si perde e basta.
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Ditemi tre motivi per non leggere i vostri
libri, e uno per farlo.
A.: Per non leggerli? Perché non ci sono storie d'amore
melense. Perché è pericoloso affezionarsi ai miei personaggi, dato che non
necessariamente i miei romanzi hanno un lieto fine. E perché cerco di fare in
modo che non siano prevedibili secondo questo o quello schema.
Uno per leggerli? Perché scrivo storie che mi piacciono e
che devono appassionare me per prima, divertendomi a farlo nel modo migliore
che posso.
L.: Non leggete i miei libri
perché quando i miei mostri si innamorano non si struggono: distruggono. Non
leggeteli perché sono fantasy scritti da un autore italiano, e questo nel
nostro paese è – piaccia o no – ancora uno stigma. E non leggeteli perché non
contengono nessun importante messaggio morale, nessuna grande verità, nessuna
profonda metafora della vita umana: sono storie scritte per intrattenere e – lo
spero sinceramente – emozionare. Se invece li volete leggere, fatelo perché
sperate che vi tengano svegli fino alle tre di notte. Mi hanno detto che a
volte è successo. Non ho ancora smesso di gongolare.
Bella l'intervista doppia! Ne voglio una con il Cannibale! ;)
RispondiEliminaBellissima intervista! *-*
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