martedì 29 aprile 2014

Intervista doppia ad Aislinn e Luca Tarenzi: tra urban fantasy e angeli ubriaconi

Buongiorno! Come state? E' da un po' che non approdo su questi lidi, ma per farmi perdonare vi propongo una vera chicca: un'intervista doppia semiseria a due colleghi che, come sapete, ho conosciuto al Lucca Comics dell'anno scorso: Aislinn, autrice di Angelize (recensione qui) e Luca Tarenzi, autore di God breaker (recensione qui). Per rendere più vivace questa pagina, ho chiesto loro di scegliere un'immagine che li rappresenti. Scoprirete che queste immagini li rispecchiano parecchio!

-        Chi siete? Cosa fate nella vita? Come siete inciampati in questo blog?

A.: Non lo so, ci hanno messo un sacco in testa e ci hanno trascinato in questa stanza... chi c'è dietro la luce fortissima di quella lampada? Perché la voce distorta?...
Ehm. Chi sono, sto ancora cercando di capirlo. Una che vuole scrivere, senza dubbio. Una metallara con la spada, anche... Insomma, sono Nemi Montoya versione scribacchina.
Cosa faccio nella vita: scrivo, leggo, traduco, correggo, edito. E viaggio, vado al cinema, al pub, ai concerti, e mi godo la vita più che posso cercando di zittire la mia parte ansiosa.

L.: Ci sono venuto su invito di una graziosa giovane scrittrice che a vederla sembra puccia come un peluche ma poi se la leggi ti rendi conto che ha la mente di un killer. E io accetto sempre gli inviti delle giovani scrittrici pucce come peluche, anche quando sono più alte di me (cioè i due terzi delle volte…)
Nella vita mi hanno chiamato traduttore, redattore, stregone, guida turistica, Rafiki, Peter Pan, brutto disgraziato ed “Ehi tu con quei capelli da ragazza!” Ho scritto anche dei libri, ma a differenza di Terry Pratchett non sono mai stato accusato di letteratura :-p
Però, a voler essere del tutto sinceri, l’unica cosa che so fare veramente bene nella vita è l’imitazione di Rumpelstiltskin.

-        Se voi foste un dipinto, sareste…?

A.: Sai che questa è una domanda difficile? Non riesco a trovare un quadro «classico» per risponderti. Ti metto un link a un'immagine pescata su internet per caso, di cui ignoro l'origine: click. Dovrebbe rappresentare la Morrigan. Io mi ci ritrovo molto, o almeno ci provo. I capelli lunghi ce li ho ^___^
  
L.: Probabilmente uno di Caspar David Friedrich.
Forse il “Viandante sul mare di nebbia”



-        Se i vostri romanzi fossero dipinti, sarebbero…?

A.: … E questa è ancora più difficile! Ero più preparata su paragoni con la musica... Non mi viene in mente un quadro in particolare. Ma ecco,  posso dirti che, se fossero fumetti, sarebbero strisce di Nemi, con qualche mostro in più.


L.:  Più che dipinti, illustrazioni di Daniel Dos Santos ( www.dandossantos.com )
Oppure fumetti di Gary Frank!



-        E voi, come “dipingete” i vostri romanzi? Scrivete a penna o su tastiera? Con un orario fisso da rispettare, o quando capita? Pianificando tutto o aspettando che la vostra musa si presenti alla porta?

A.: Al 95% su tastiera; la penna e il notes mi servono solo per prendere appunti o abbozzare scene quando devo fissare qualche idea mentre sono fuori da casa. Preferisco scrivere di sera e di notte, ma non ho un orario preciso, scrivo quando ho un momento libero per farlo, dato che non è il mio unico lavoro. E sono costituzionalmente incapace di pianificare: butto giù qualche scaletta parziale, ma soprattutto scrivo mettendomi alle calcagna dei personaggi e vedendo che combinano loro. E no, non aspetto l'ispirazione. È lei che deve trovarmi già al lavoro al computer.
  
L.: Se scrivessi a penna non sarei capace di rileggermi da solo. Quando ero in università una mia amica che insegnava catechismo usava i miei appunti per punire i suoi ragazzini quando facevano casino: hai rotto le palle? Una pagina di Tarenzi da trascrivere! Non sto scherzando. La mia calligrafia è stata usata come strumento di tortura disciplinare.
Di solito non mi do orari nella giornata ma mi do scadenze settimanali, a cui sono molto ligio: tot migliaia di battute alla settimana altrimenti non si fa altro finché non si è raggiunta la quota. In genere pianifico le storie in maniera un po’ diseguale, dettagliando molto alcune parti e molto poco altre, ma una scaletta (mentale, quasi mai scritta) ce l’ho sempre. E vale la vecchia celebre regola: la musa quando arriva deve trovarti seduto che lavori.

-        E i vostri personaggi? Che tipo sono? Sono ispirati a persone reali?

A.: Singoli atteggiamenti, aneddoti o dettagli del carattere magari appartengono a persone che conosco o che ho conosciuto, ma non ricalco mai un personaggio tale e quale su qualcuno di reale. Per lo più sono loro che arrivano, si presentano e iniziano a fare casino. Che tipi sono? Be', sono una folla abbastanza eterogenea, in realtà. Ci sono i pazzi, i bravi ragazzi, i leader, gli insicuri... Molti sono persone che non hanno ancora trovato se stessi, altri sono persone che invece credevano di averlo già fatto e hanno visto frantumarsi l'immagine di sé che avevano. Per lo più sono uomini, perché mi trovo meglio – e mi diverto di più – con personaggi maschili, ma non è una regola; nelle storie che ancora devono uscire la presenza femminile è aumentata. In comune hanno il fatto che... li tratto tutti malissimo. Più che temere il fan pazzo stile Misery non deve morire, temo che i personaggi escano dai miei libri e mi vengano a cercare per regolare i conti. Armati di spranghe e spade, sì.

L.: I miei personaggi sono degli squilibrati. Non nel senso che devono sembrare esoticamente psicopatici – o anche solo esotici – apposta per appagare il palato di quei lettori un po’ radical chic che cercando lo strano a ogni coso: intendo proprio privi di equilibrio. La cosa che mi interessa di più è vederli precipitare in direzioni che non conoscono, con movimenti che non sanno controllare. E scoprire cosa succede a quel punto, cosa possono imparare a fare per riprendere il controllo delle proprie vite. Mi ispiro spesso a persone che conosco e/o a personaggi famosi per l’aspetto fisico, ma praticamente mai per il carattere: l’ho fatto un po’ nel mio primo romanzo, molti anni fa, ma da allora non più.


-        Secondo voi, perché i personaggi nell’urban fantasy sono spesso dei disadattati (ragazzi che non hanno ancora trovato il proprio posto nel mondo, o adulti che occupano un posto che non fa proprio per loro)?

A.: Per quanto mi riguarda, i personaggi che ho descritto finora sono semplicemente figli del mondo in cui vivono, che è anche il mio. E quindi sperimentano sulla propria pelle la crisi, cercano di relazionarsi con le persone, sono costretti a fare un lavoro che non gli piace per mantenersi e così via. E nel caso in cui, all'inizio della storia, siano persone tranquille e soddisfatte... ci penso io a devastargli la vita quando comincia il romanzo, per vedere come reagiscono.

L.: Perché se non sei integrato di solito hai un disintegratore (anche se magari non lo sai). Se non sei una mattonella, sei un buco nel muro. Ed è dai buchi che può entrare quel che c’è al di là del muro.
Stranezza attira stranezza. E tenete conto che anche l’assoluta, perfetta normalità è una cosa parecchio strana.
Poi c’è anche una spiegazione che sa di psicologia da marciapiede e dice che, siccome il fantasy è perlopiù diretto ai lettori giovani e tutti gli adolescenti si sentono dei fuori posto, servono personaggi disadattati perché loro ci si possano identificare meglio. Ma personalmente la ritengo una spiegazione del colore del cemento e non intendo usarla nemmeno come scendiletto.
  
-        Quanto conta l’ambientazione in una storia urban fantasy? (E quanto è divertente far esplodere edifici milanesi o far rovesciare i banchi di una chiesa a un gruppo di angeli munito di spranghe?)


A.: Ogni storia ha la sua giusta ambientazione, che, come sfondo, dovrebbe contribuire all'atmosfera di ciò che accade. Angelize aveva bisogno di una grande città dove i personaggi potessero smarrirsi ed essere anonimi tra la folla; in un altro urban fantasy che ho scritto, ancora inedito, invece, il setting è una piccola città di provincia, dove i personaggi si sentono tagliati fuori dal mondo, chiusi in una gabbia troppo piccola. Per me è importante che i lettori sentano che ciò che accade nel libro si verifica proprio accanto a loro: magari nella via che percorrono tutti i giorni, o nella città dove vanno al sabato sera. Quello che trovo così congeniale, nell'urban fantasy, è proprio unire l'elemento fantastico a quello realistico, l'inaspettato al quotidiano.

L.: L’ambientazione è importantissima. Se la tua storia è urban fantasy e non fantasy tout court è imprescindibile che il setting sia qualcosa che il lettore conosce (o crede di conoscere, o può immaginare di conoscere senza eccessivo sforzo), perché il senso di straniamento che deriva dal vedere i mostri e la magia irrompere nelle strade delle nostre città reali – o delle nostre campagne, o dei nostri boschi, beninteso – è parte dell’anima del fantastico metropolitano. Per questa ragione sono fermamente convinto che gli autori italiani di urban fantasy possano e debbano usare setting almeno in parte italiani. Poi è ovvio che nulla ci costringe a limitarci a quello, ma penso che l’idea che volevo far passare sia passata, no?

-        Quanto conta il tipo di creature sovrannaturali presenti? Anche in relazione alle moderne alterne di vampiri, angeli e zombie.

A.: Secondo me, il bello dell'urban fantasy è che non pone limiti in questo senso. Ho scritto di angeli, ho scritto di vampiri, ho scritto di spiriti usciti da leggende... Nell'urban fantasy c'è il soprannaturale inaspettato, celato magari a una strada di distanza da casa, oltre la soglia di un edificio davanti a cui si passa tutti i giorni. Vampiri, angeli, fate e così via si portano dietro il peso degli archetipi, dei tanti significati che hanno assunto col tempo, attraverso mitologia, folklore, letteratura, cinema eccetera, un'eredità con la quale è possibile giocare e che è possibile sfruttare; ma sono anche potenzialmente così flessibili e multiformi che è sempre possibile dare loro un taglio nuovo, vederli da un'angolazione personale e insolita.

L.: Uno dei problemi del mercato fantasy odierno – un problema senz’altro internazionale, ma che in Italia si vede in forma particolarmente esasperata – è proprio la tendenza a pensare che le figure del fantastico siano intercambiabili. Puoi metterci l’angelo o il licantropo o il vampiro, l’importante è che si innamori della liceale sfigata di turno; se ha le ali da pipistrello o i peli lunghi una spanna o una coda con le squame non ha nessuna importanza.
E invece ce l’ha. E non ditemi che devo sul serio spiegare perché.
Ogni creatura dell’immaginario ha una sua tipicità, una sua tradizione, una sua mitologia. Che poi può essere rispettata, reinterpretata, stravolta, ibridata o fatta a pezzi e ricucita Frankenstein-style: il gusto del gioco sta proprio qui. Ma se viene semplicemente ignorata non ci si guadagna nulla: ci si perde e basta.

-        Ditemi tre motivi per non leggere i vostri libri, e uno per farlo.


A.: Per non leggerli? Perché non ci sono storie d'amore melense. Perché è pericoloso affezionarsi ai miei personaggi, dato che non necessariamente i miei romanzi hanno un lieto fine. E perché cerco di fare in modo che non siano prevedibili secondo questo o quello schema.
Uno per leggerli? Perché scrivo storie che mi piacciono e che devono appassionare me per prima, divertendomi a farlo nel modo migliore che posso.

L.: Non leggete i miei libri perché quando i miei mostri si innamorano non si struggono: distruggono. Non leggeteli perché sono fantasy scritti da un autore italiano, e questo nel nostro paese è – piaccia o no – ancora uno stigma. E non leggeteli perché non contengono nessun importante messaggio morale, nessuna grande verità, nessuna profonda metafora della vita umana: sono storie scritte per intrattenere e – lo spero sinceramente – emozionare. Se invece li volete leggere, fatelo perché sperate che vi tengano svegli fino alle tre di notte. Mi hanno detto che a volte è successo. Non ho ancora smesso di gongolare.

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