martedì 29 aprile 2014

Intervista doppia ad Aislinn e Luca Tarenzi: tra urban fantasy e angeli ubriaconi

Buongiorno! Come state? E' da un po' che non approdo su questi lidi, ma per farmi perdonare vi propongo una vera chicca: un'intervista doppia semiseria a due colleghi che, come sapete, ho conosciuto al Lucca Comics dell'anno scorso: Aislinn, autrice di Angelize (recensione qui) e Luca Tarenzi, autore di God breaker (recensione qui). Per rendere più vivace questa pagina, ho chiesto loro di scegliere un'immagine che li rappresenti. Scoprirete che queste immagini li rispecchiano parecchio!

-        Chi siete? Cosa fate nella vita? Come siete inciampati in questo blog?

A.: Non lo so, ci hanno messo un sacco in testa e ci hanno trascinato in questa stanza... chi c'è dietro la luce fortissima di quella lampada? Perché la voce distorta?...
Ehm. Chi sono, sto ancora cercando di capirlo. Una che vuole scrivere, senza dubbio. Una metallara con la spada, anche... Insomma, sono Nemi Montoya versione scribacchina.
Cosa faccio nella vita: scrivo, leggo, traduco, correggo, edito. E viaggio, vado al cinema, al pub, ai concerti, e mi godo la vita più che posso cercando di zittire la mia parte ansiosa.

L.: Ci sono venuto su invito di una graziosa giovane scrittrice che a vederla sembra puccia come un peluche ma poi se la leggi ti rendi conto che ha la mente di un killer. E io accetto sempre gli inviti delle giovani scrittrici pucce come peluche, anche quando sono più alte di me (cioè i due terzi delle volte…)
Nella vita mi hanno chiamato traduttore, redattore, stregone, guida turistica, Rafiki, Peter Pan, brutto disgraziato ed “Ehi tu con quei capelli da ragazza!” Ho scritto anche dei libri, ma a differenza di Terry Pratchett non sono mai stato accusato di letteratura :-p
Però, a voler essere del tutto sinceri, l’unica cosa che so fare veramente bene nella vita è l’imitazione di Rumpelstiltskin.

-        Se voi foste un dipinto, sareste…?

A.: Sai che questa è una domanda difficile? Non riesco a trovare un quadro «classico» per risponderti. Ti metto un link a un'immagine pescata su internet per caso, di cui ignoro l'origine: click. Dovrebbe rappresentare la Morrigan. Io mi ci ritrovo molto, o almeno ci provo. I capelli lunghi ce li ho ^___^
  
L.: Probabilmente uno di Caspar David Friedrich.
Forse il “Viandante sul mare di nebbia”



-        Se i vostri romanzi fossero dipinti, sarebbero…?

A.: … E questa è ancora più difficile! Ero più preparata su paragoni con la musica... Non mi viene in mente un quadro in particolare. Ma ecco,  posso dirti che, se fossero fumetti, sarebbero strisce di Nemi, con qualche mostro in più.


L.:  Più che dipinti, illustrazioni di Daniel Dos Santos ( www.dandossantos.com )
Oppure fumetti di Gary Frank!



-        E voi, come “dipingete” i vostri romanzi? Scrivete a penna o su tastiera? Con un orario fisso da rispettare, o quando capita? Pianificando tutto o aspettando che la vostra musa si presenti alla porta?

A.: Al 95% su tastiera; la penna e il notes mi servono solo per prendere appunti o abbozzare scene quando devo fissare qualche idea mentre sono fuori da casa. Preferisco scrivere di sera e di notte, ma non ho un orario preciso, scrivo quando ho un momento libero per farlo, dato che non è il mio unico lavoro. E sono costituzionalmente incapace di pianificare: butto giù qualche scaletta parziale, ma soprattutto scrivo mettendomi alle calcagna dei personaggi e vedendo che combinano loro. E no, non aspetto l'ispirazione. È lei che deve trovarmi già al lavoro al computer.
  
L.: Se scrivessi a penna non sarei capace di rileggermi da solo. Quando ero in università una mia amica che insegnava catechismo usava i miei appunti per punire i suoi ragazzini quando facevano casino: hai rotto le palle? Una pagina di Tarenzi da trascrivere! Non sto scherzando. La mia calligrafia è stata usata come strumento di tortura disciplinare.
Di solito non mi do orari nella giornata ma mi do scadenze settimanali, a cui sono molto ligio: tot migliaia di battute alla settimana altrimenti non si fa altro finché non si è raggiunta la quota. In genere pianifico le storie in maniera un po’ diseguale, dettagliando molto alcune parti e molto poco altre, ma una scaletta (mentale, quasi mai scritta) ce l’ho sempre. E vale la vecchia celebre regola: la musa quando arriva deve trovarti seduto che lavori.

-        E i vostri personaggi? Che tipo sono? Sono ispirati a persone reali?

A.: Singoli atteggiamenti, aneddoti o dettagli del carattere magari appartengono a persone che conosco o che ho conosciuto, ma non ricalco mai un personaggio tale e quale su qualcuno di reale. Per lo più sono loro che arrivano, si presentano e iniziano a fare casino. Che tipi sono? Be', sono una folla abbastanza eterogenea, in realtà. Ci sono i pazzi, i bravi ragazzi, i leader, gli insicuri... Molti sono persone che non hanno ancora trovato se stessi, altri sono persone che invece credevano di averlo già fatto e hanno visto frantumarsi l'immagine di sé che avevano. Per lo più sono uomini, perché mi trovo meglio – e mi diverto di più – con personaggi maschili, ma non è una regola; nelle storie che ancora devono uscire la presenza femminile è aumentata. In comune hanno il fatto che... li tratto tutti malissimo. Più che temere il fan pazzo stile Misery non deve morire, temo che i personaggi escano dai miei libri e mi vengano a cercare per regolare i conti. Armati di spranghe e spade, sì.

L.: I miei personaggi sono degli squilibrati. Non nel senso che devono sembrare esoticamente psicopatici – o anche solo esotici – apposta per appagare il palato di quei lettori un po’ radical chic che cercando lo strano a ogni coso: intendo proprio privi di equilibrio. La cosa che mi interessa di più è vederli precipitare in direzioni che non conoscono, con movimenti che non sanno controllare. E scoprire cosa succede a quel punto, cosa possono imparare a fare per riprendere il controllo delle proprie vite. Mi ispiro spesso a persone che conosco e/o a personaggi famosi per l’aspetto fisico, ma praticamente mai per il carattere: l’ho fatto un po’ nel mio primo romanzo, molti anni fa, ma da allora non più.


-        Secondo voi, perché i personaggi nell’urban fantasy sono spesso dei disadattati (ragazzi che non hanno ancora trovato il proprio posto nel mondo, o adulti che occupano un posto che non fa proprio per loro)?

A.: Per quanto mi riguarda, i personaggi che ho descritto finora sono semplicemente figli del mondo in cui vivono, che è anche il mio. E quindi sperimentano sulla propria pelle la crisi, cercano di relazionarsi con le persone, sono costretti a fare un lavoro che non gli piace per mantenersi e così via. E nel caso in cui, all'inizio della storia, siano persone tranquille e soddisfatte... ci penso io a devastargli la vita quando comincia il romanzo, per vedere come reagiscono.

L.: Perché se non sei integrato di solito hai un disintegratore (anche se magari non lo sai). Se non sei una mattonella, sei un buco nel muro. Ed è dai buchi che può entrare quel che c’è al di là del muro.
Stranezza attira stranezza. E tenete conto che anche l’assoluta, perfetta normalità è una cosa parecchio strana.
Poi c’è anche una spiegazione che sa di psicologia da marciapiede e dice che, siccome il fantasy è perlopiù diretto ai lettori giovani e tutti gli adolescenti si sentono dei fuori posto, servono personaggi disadattati perché loro ci si possano identificare meglio. Ma personalmente la ritengo una spiegazione del colore del cemento e non intendo usarla nemmeno come scendiletto.
  
-        Quanto conta l’ambientazione in una storia urban fantasy? (E quanto è divertente far esplodere edifici milanesi o far rovesciare i banchi di una chiesa a un gruppo di angeli munito di spranghe?)


A.: Ogni storia ha la sua giusta ambientazione, che, come sfondo, dovrebbe contribuire all'atmosfera di ciò che accade. Angelize aveva bisogno di una grande città dove i personaggi potessero smarrirsi ed essere anonimi tra la folla; in un altro urban fantasy che ho scritto, ancora inedito, invece, il setting è una piccola città di provincia, dove i personaggi si sentono tagliati fuori dal mondo, chiusi in una gabbia troppo piccola. Per me è importante che i lettori sentano che ciò che accade nel libro si verifica proprio accanto a loro: magari nella via che percorrono tutti i giorni, o nella città dove vanno al sabato sera. Quello che trovo così congeniale, nell'urban fantasy, è proprio unire l'elemento fantastico a quello realistico, l'inaspettato al quotidiano.

L.: L’ambientazione è importantissima. Se la tua storia è urban fantasy e non fantasy tout court è imprescindibile che il setting sia qualcosa che il lettore conosce (o crede di conoscere, o può immaginare di conoscere senza eccessivo sforzo), perché il senso di straniamento che deriva dal vedere i mostri e la magia irrompere nelle strade delle nostre città reali – o delle nostre campagne, o dei nostri boschi, beninteso – è parte dell’anima del fantastico metropolitano. Per questa ragione sono fermamente convinto che gli autori italiani di urban fantasy possano e debbano usare setting almeno in parte italiani. Poi è ovvio che nulla ci costringe a limitarci a quello, ma penso che l’idea che volevo far passare sia passata, no?

-        Quanto conta il tipo di creature sovrannaturali presenti? Anche in relazione alle moderne alterne di vampiri, angeli e zombie.

A.: Secondo me, il bello dell'urban fantasy è che non pone limiti in questo senso. Ho scritto di angeli, ho scritto di vampiri, ho scritto di spiriti usciti da leggende... Nell'urban fantasy c'è il soprannaturale inaspettato, celato magari a una strada di distanza da casa, oltre la soglia di un edificio davanti a cui si passa tutti i giorni. Vampiri, angeli, fate e così via si portano dietro il peso degli archetipi, dei tanti significati che hanno assunto col tempo, attraverso mitologia, folklore, letteratura, cinema eccetera, un'eredità con la quale è possibile giocare e che è possibile sfruttare; ma sono anche potenzialmente così flessibili e multiformi che è sempre possibile dare loro un taglio nuovo, vederli da un'angolazione personale e insolita.

L.: Uno dei problemi del mercato fantasy odierno – un problema senz’altro internazionale, ma che in Italia si vede in forma particolarmente esasperata – è proprio la tendenza a pensare che le figure del fantastico siano intercambiabili. Puoi metterci l’angelo o il licantropo o il vampiro, l’importante è che si innamori della liceale sfigata di turno; se ha le ali da pipistrello o i peli lunghi una spanna o una coda con le squame non ha nessuna importanza.
E invece ce l’ha. E non ditemi che devo sul serio spiegare perché.
Ogni creatura dell’immaginario ha una sua tipicità, una sua tradizione, una sua mitologia. Che poi può essere rispettata, reinterpretata, stravolta, ibridata o fatta a pezzi e ricucita Frankenstein-style: il gusto del gioco sta proprio qui. Ma se viene semplicemente ignorata non ci si guadagna nulla: ci si perde e basta.

-        Ditemi tre motivi per non leggere i vostri libri, e uno per farlo.


A.: Per non leggerli? Perché non ci sono storie d'amore melense. Perché è pericoloso affezionarsi ai miei personaggi, dato che non necessariamente i miei romanzi hanno un lieto fine. E perché cerco di fare in modo che non siano prevedibili secondo questo o quello schema.
Uno per leggerli? Perché scrivo storie che mi piacciono e che devono appassionare me per prima, divertendomi a farlo nel modo migliore che posso.

L.: Non leggete i miei libri perché quando i miei mostri si innamorano non si struggono: distruggono. Non leggeteli perché sono fantasy scritti da un autore italiano, e questo nel nostro paese è – piaccia o no – ancora uno stigma. E non leggeteli perché non contengono nessun importante messaggio morale, nessuna grande verità, nessuna profonda metafora della vita umana: sono storie scritte per intrattenere e – lo spero sinceramente – emozionare. Se invece li volete leggere, fatelo perché sperate che vi tengano svegli fino alle tre di notte. Mi hanno detto che a volte è successo. Non ho ancora smesso di gongolare.

martedì 15 aprile 2014

La Terra di Mezzo, Andata e Ritorno

“Ebbene, cari amici. Qui sulle rive del mare finisce la nostra Compagnia nella Terra di Mezzo. Andate in pace! Non dirò “non piangete”, perché non tutte le lacrime sono un male.”

 

Mi sentirei presuntuosa se provassi in poche righe a recensire un’opera così complessa come Il Signore degli Anelli, per cui credo che a questo libro straordinario dedicherò più d’una recensione.
Qui, visto che mi piacciono le cose fatte al contrario, anziché parlare dell’inizio, vi parlerò dell’ultima pagina.

La storia è nota: Frodo, piccolo Hobbit che vive in una terra felice chiamata Contea, si offre di recarsi a Mordor, insieme al fedele servitore Sam, per distruggere l’Anello del Potere, che, se cadesse nelle mani del Nemico, causerebbe la distruzione della Terra di Mezzo. Frodo parte e, mentre attorno a lui infuriano battaglie, muoiono eroi, si innamorano fanciulle, Frodo continua a camminare, portando un fardello che si fa sempre più pesante.
Infine arriva a destinazione, distrugge l’anello. E ritorna a casa.

Ed è del ritorno che vorrei parlare.
E per capire il ritorno di Frodo è necessario fare un passo indietro.

Ricorderete che il sottotitolo de Lo Hobbit, l’opera che precede cronologicamente Il Signore degli Anelli, è Andata e ritorno. Questo perché, per Bilbo, protagonista della narrazione, tornare è necessario per raccontare ciò che è stato scoperto, per renderlo patrimonio comune. E si nota che la persona che inizia un viaggio è diversa dalla persona che lo termina.



Così Bilbo al termine de Lo Hobbit è cambiato, ha acquisito conoscenza del mondo e di se stesso. E per questo cambiamento, non potrà mai più tornare alla vita di prima, nessuno riuscirà a riconoscerlo più.
Lo stesso accade a Frodo ne Il Signore degli Anelli. Il viaggio di Frodo è compiuto al fine di ristabilire l’ordine del mondo. Questo potrebbe far pensare alla ricerca medievale del Santo Graal, ma vi è una differenza fondamentale.
Mentre nella ricerca tradizionale il Santo Graal deve essere conquistato, la prova finale di Frodo è opposta: l’oggetto magico e potente va distrutto. È una lotta non con un mostro, ma con un Male interiore.
E dopo aver portato a termine questo viaggio, anche Frodo, come Bilbo, non può più essere lo stesso.
Viene introdotto, dunque, un altro tema: quello delle Isole Immortali e dei Porti Grigi.

A ovest della Terra di Mezzo abbiamo il mare. Oltre il mare, le leggende parlano delle Terre Immortali da cui provengono gli elfi e dove gli elfi vanno per vivere indisturbati la loro immortalità.
Queste Terre Immortali si rifanno a una tradizione medievale, quella delle Isole Beate, dove vanno le anime dei defunti. È anche, se vogliamo, la “terra inesplorata dalla quale nessun viaggiatore fa mai ritorno”, citata da Shakespeare nell’Amleto. È anche possibile identificarla come il monte del Purgatorio descritto da Dante nella Divina Commedia.
In tutte queste leggende e in queste storie sembra comune il tema dell’ultimo viaggio, di un viaggio di sola andata (non di “Andata e ritorno”), che tutti, prima o poi, dobbiamo affrontare.

In conclusione, dopo aver tanto viaggiato e conosciuto, è possibile trovare la pace solo nelle Terre Immortali.
Così il mondo di Tolkien rappresenta il nostro mondo, attraverso il quale i protagonisti compiono un viaggio alla ricerca di se stessi, che, quando è compiuto, termina con le Terre Imperiture, un viaggio senza ritorno.
Non è un caso che Il Signore degli Anelli termini con la partenza di Frodo per la “Terra inesplorata”, mentre il suo fedele Sam resta.
Mentre Frodo è stato sconvolto dal viaggio e dal peso dell’Anello, Sam non è stato così segnato e la sua avventura non è ancora conclusa. Dopo che Frodo è partito dai Porti Grigi, Sam torna a casa. Il Ritorno del Re termina, quindi, con le parole:
“Sono tornato”,

che significano: “Sono vivo. Posso ripartire.”


Agave

Post pubblicato per la prima volta sul mio blog su WordPress.
Per approfondire, potete leggere:
Paolo Gulisano, La mappa della Terra di Mezzo di Tolkien, Bompiani, 2011

martedì 8 aprile 2014

"Diari dal sottosuolo": un'antologia urban fantasy

Buongiorno a tutti! Oggi vi presento un'antologia, a cura di Diario di Pensieri Persi, che uscirà il 28 aprile sia in formato cartaceo sia in ebook.
Dieci storie urban fantasy tra cui troverete anche un mio racconto.



L'agghiacciante nenia di una sirena assetata di sangue. Una giovane strega desiderosa di vendetta che invoca demoni oscuri. Un uomo disposto a tutto pur di ricordare il suo passato. Città immaginarie, portali che separano il quotidiano dall'incubo. Echi provenienti dall'abisso dell'animo umano e che affiorano minacciosi come ombre. Tra le pagine di questi racconti, tutto può accadere.
Una straordinaria antologia che coglie con un unico sguardo il mondo del sovrannaturale. Diari dal Sottosuolo ci inizia al perturbante confronto con un universo dalle tinte cupe e dai labili confini, quello dello Urban Fantasy, nel quale risuonano le voci di dieci talentuosi autori italiani che credono nella suggestione del diverso e nel fascino dell'orrore.



Sommario
Stefania Auci -- La mamma fantasma
Sabrina Grappeggia Bernard -- Gercai e le catene della libertà
Giacomo Bernini -- Pandora
Romina Casagrande -- Sirene
Gisella Laterza -- Sogni perduti e birra scura
Laura MacLem -- Parcheggio Riservato
Giulia Marengo -- Artù
Loredana La Puma -- La Notte del Destino
Eugenio Saguatti -- Nati nel buio
Federica Soprani -- Dancing with Roger

Dal 28 aprile

lunedì 7 aprile 2014

Pensieri su "La Bella e la Bestia"

Conoscete il mio amore per le fiabe, e per diversi adattamenti delle fiabe realizzati dalla Disney. Sapete che amo Rapunzel sopra ogni cosa (recensione qui) perché racchiude molte chiavi di lettura su vari aspetti della vita di una persona. Oggi invece vi parlo della Bella e la Bestia, che, pur non essendo una fiaba completa come Rapunzel, è forse la storia che parla di ciò che significa amare e di essere amati. E scusate se è poco.

SINOSSI
Molto tempo fa, un principe viziato ed egoista viveva tra gli agi del suo palazzo. Un giorno, durante un temporale, una vecchia donna bussò al portone per chiedere rifugio offrendosi di pagare con una rosa, ed il principe la cacciò malamente. Ma questo fu un grosso sbaglio: la vecchia era in realtà una fata che lo stava mettendo alla prova. Lui non la superò e venne punito con la trasformazione in una creatura mostruosa. Tutto il castello pagò le conseguenze del sortilegio e ogni suo abitante fu trasformato in un curioso oggetto casalingo animato. Solo se avesse scoperto l'amore e se si fosse dimostrato capace di farsi amare entro il suo ventunesimo compleanno, il principe avrebbe spezzato l'incantesimo. Il tempo passa, ma nulla cambia, il castello resta per anni isolato da tutto e tutti. Fino all'arrivo di Belle, una bella ed intelligente ragazza che adora leggere libri e sogna di vivere le avventure che trova nelle loro pagine...


Chi avrebbe mai potuto amare una Bestia?

A prima vista, sembra che la protagonista della storia sia Belle che, con la sua capacità di vedere oltre le apparenze, salva la Bestia.
Ma a me piace leggere la storia dalla parte della Bestia, e credo sia la storia di un'anima solitaria che non crede di poter essere amata.
Sembra un paradosso, ma spesso è difficile accettare di essere amati per ciò che siamo, sapere di meritare l'amore che ci viene offerto. Amare è facile. Credere che qualcuno possa amarci sembra incredibile. Perché la persona che amiamo ci sembra troppo perfetta, troppo speciale, troppo bella per noi. E noi, a suo confronto, ci sentiamo delle bestie. Ci chiudiamo in un castello oscuro e fatato, credendo di non meritare la luce.
"È inutile illudersi. Quella ragazza non vedrà mai niente in me,
tranne che un mostro."

Passando per un momento al punto di vista di Belle, una cosa importante è il fatto che la ragazza entri nel castello per un ricatto: sarà prigioniera lei o il padre. Quello di Belle è un sacrificio per amore del padre, non un atto d'amore verso la Bestia. Il signore del castello, d'altronde, è un tiranno irascibile e di scarsa pazienza. Come è possibile amarlo? Infatti Belle non lo ama. Comincia a provare qualcosa per lui quando la Bestia, per piacerle, comincia a cambiare per lei. Sono questi passaggi fondamentali che mi hanno fatto adorare la storia Disney (e che mancano - scelta imperdonabile! - nel nuovo film con Vincent Cassel e Lea Seydoux). E' questo cambiamento della Bestia che rende l'amore di Belle, alla fine, possibile. La Bestia salva Belle dai lupi quando lei fugge nella foresta, e per salvarla viene ferito; le mostra la splendida biblioteca del castello (e questa è una scena che avrebbe convinto qualsiasi bibliofila come me a sposarlo!); diventa dolce e gentile. Non è dunque l'amore di Belle a cambiarlo e a salvarlo, ma è la Bestia che cambia perché spera di essere amato, perché spera che, se cambierà, forse per la ragazza sarà possibile vedere in lui qualcosa di più che un mostro.
Ma la Bestia - personaggio tragico e indimenticabile - alla fine è preso dalla paura che ciò che ha fatto per lei non sia abbastanza. Ha paura, in fondo, di non meritare amore, come Cyrano de Bergerac, che vede Rossana come il sole e al suo cospetto si sente un'ombra. Per questo la Bestia lascia andare Belle, dandole solo uno specchio magico come ricordo.

Ma Belle ritorna. Finora Belle non ha fatto nulla per lui, ma fa questo: tornare.
Eppure lui è ferito. La pioggia cade, e la musica di Alan Menken rende il momento struggente
Ancora la Bestia non ci crede, che Belle sia tornata, e sussura incredulo e felice: "You came back".
E subito dopo continua: "Maybe it's better.... it's better this way", perché ancora non credo di poter essere corrisposto, e preferisce morire piuttosto che non esserlo.
E ora veniamo finalmente a Belle.
Succede spesso, credo, che ci accorgiamo che una cosa è preziosa quando la perdiamo.
Quando Belle vede che lui è ferito, sa che non vuole perderlo.
E, mentre la pioggia cade sul castello incantato, mentre cade l'ultimo petalo della rosa fatata, Belle sussurra il più bel "I love you" della Disney.

domenica 6 aprile 2014

[Rubrica] La Domanda della Domenica: Chi è il buon lettore?

Buongiorno a tutti!
Con la nuova stagione mi è venuta in mente una nuova rubrica per coinvolgere voi lettori e blogger.

In cosa consiste?
La prima e la terza domenica di ogni mese scriverò un post con una domanda. Voi potete rispondere semplicemente nei commenti, oppure:
- scrivete un articolo sul vostro blog;
commentate qui inserendo il link diretto al vostro articolo.
Se volete, all'inizio del vostro articolo, inserite questa immagine:


Tutto chiaro?
Ecco la prima domanda della rubrica:

Che cosa significa, secondo voi, essere un buon lettore?

Leggere, come scrivere, è un'esperienza di creazione: chi legge, come chi scrive, crea dei mondi in cui vive per alcune ore, dei personaggi che può quasi toccare. Per questo motivo la lettura non è per tutti.


E' un cattivo lettore chi legge un solo libro all'anno perché è stato molto pubblicizzato; chi legge libri di un solo genere letterariochi cerca sempre il libro facile e scorrevole. 

Al contrario, il buon lettore, secondo me, è come un buon amante: si avvicina ai libri non per bisogno o per solitudine, ma perché li ama e ama trascorrere il tempo in loro compagnia.

Il buon lettore non si fa condizionare dalla pubblicità, dalle recensioni, dai consigli di amici o professori, ma adora stare in libreria o in biblioteca, prendere qualche volume in mano, sfogliarlo (e annusarlo di nascosto, stando ben attento a non farsi notare!), leggere qualche riga o qualche pagina, e farsi la propria idea su quel libro.


Il buon lettore non legge solo classici, perché è aperto alle voci della contemporaneità, e non legge solo romanzi contemporanei perché sa ritrovare se stesso anche nelle parole di chi ha vissuto mille anni prima di lui.

Per il buon lettore non conta se lo stile è asciutto o prolisso, se la trama è movimentata o se non accade nulla, se ci sono vampiri o draghi, assassini da catturare o mostri da sconfiggere, o non c'è niente di tutto questo e il romanzo si svolge in una stanza buia. Ciò che conta è che il libro sia scritto bene.

Il buon lettore, insomma, legge di tutto, dal libro più sciocco per divertirsi a quello più profondo per indagare se stesso. E sa capire la differenza.

© Gisella Laterza


E voi cosa ne pensate? Aspetto di conoscere i vostri pareri!

venerdì 4 aprile 2014

[Made in Italy#3]

Oggi sono di corsa e vi lascio velocemente l'appuntamento settimanale con il Made in Italy!


Titolo: Col nostro sangue hanno dipinto il cielo
Autore: Eleonora C. Caruso
Pubblicazione: 31/3/2014 
Prezzo: Free

TRAMA
Shun ha 25 anni e vive in una Tokyo vanesia e spersonalizzata. Shun è un host, uno degli accompagnatori più richiesti del Parfume, locale frequentato da uomini e donne, giovani e non, in cerca di affetto, comprensione e una parvenza di amore. Shun finge di amare le proprie clienti, e loro pagano per questa illusione. L’incontro con il giovane Toru potrebbe cambiare la sua vita, ma Shun è stanco e la sua storia, per sua stessa ammissione, è una di quelle nelle quali non aveva perso niente né imparato niente.



Titolo: Fine dei Giochi
Autore: Alessio Gazzotti
Data di Pubblicazione: 25 marzo 2014
Pagine: 126
Prezzo: 13,70 €

TRAMA
Le storie raccontate in “Fine dei Giochi” sono solo apparentemente slegate. L’antologia è un percorso, talvolta onirico, che ci accompagna dai sacrifici della Cultura celtica, sino all’agonia delle ultime ore di Vincent Van Gogh. Si rivive lo sbarco (in Normandia?) di un contingente miliare e si assiste al disastro provocato da scienziati schiavi delle proprie macchine.
Passando dallo scontro che segnò la fine della Cavalleria per mano dei primi archibugieri spagnoli, a episodi di vita riconducibili alla quotidianità di tutti noi, in ogni occasione sarà possibile riconoscersi nei dubbi e nelle debolezze dei protagonisti.
Tutti, alla fine, dovranno affrontare qualcosa che li soverchierà, arrivando alla… “Fine dei giochi”.
Terminato il libro, saremo obbligati, ancora una volta, a chiederci se siamo davvero artefici del nostro destino.